15 giugno

Indro e Destà



Di fronte all’ignoranza, alle strumentalizzazioni ideologiche, all’ottusa stupidità, alla violenza degli imbrattatori e di chi li ispira, non abbiamo più parole. Lasciamo voce a Indro Montanelli.

Nel 1994 andò in onda su RAI3 un programma in 10 puntate intitolato “Eppur si muove. Cambiano gli italiani?” ideato e condotto da Indro Montanelli e Beniamino Placido. Dalla trasmissione nacque poi, nel 1995, un volume (Rizzoli editore) con il medesimo titolo e articolato in 16 capitoli. Il tredicesimo, intitolato “Razzisti o tolleranti”, si conclude con una lettera ideale di Montanelli a un giovane, nella quale Indro racconta la sua esperienza africana, che si conclude con il ricordo di Destà che qui riportiamo. Chi vuole approfondire può leggere l’intero breve e interessante capitolo 

"Caro…
Eccoti in sintesi la mia storia, la storia di una illusione e di una delusione, che furono un po’ quelle di quasi tutta la mia generazione. La vicenda coniugale della sposa abissina rientra nell’illusione. 
Io volevo diventare un abissino, e lo feci adeguandomi ai costumi matrimoniali locali. Cioè comprai (500 talleri) la mia Destà (così si chiamava) dal padre, cui partendo la restituii con un po’ di dote (tutti i miei risparmi) che le consentirono di trovare subito un altro marito nella persona di un mio graduato (bulukbashi) di nome Gheremedin, che al suo primo nato - ma nato due anni dopo il mio rimpatrio - dette il nome mio.
Oggi io ripenso a questo mio passato con nostalgia non delle cose che feci, ma dell’entusiasmo con cui le feci, e comunque senza vergogna. Mi feci complice di un errore, ma lo commisi in buona fede e senza trarne alcun vantaggio. Anche tu, ragazzo mio, commetterai i tuoi bravi errori. Ti auguro di poterci un giorno ripensare come me, senza arrossirne."


Sullo stesso tema aggiungiamo una breve testimonianza di Angelo Del Boca, rilasciata nel 2019 nel corso di una trasmissione televisiva (TG2 Dossier a cura di Miska Ruggeri), dedicata a Indro Montanelli. Ricordiamo che Del Boca, il maggiore storico del colonialismo italiano, ebbe con Montanelli una lunga polemica sull’uso dei gas da parte delle truppe italiane in Etiopia. Indro riconobbe infine che i gas erano stati effettivamente usati.

«… Nell’atmosfera dell’epoca queste cose erano inevitabili, era una tradizione da rispettare. Ne abbiamo parlato a lungo proprio perché lui sapeva che io ben conoscevo i costumi eritrei e quindi non mi scandalizzavo certo. Tra l’altro, ho avuto l’impressione che il matrimonio non sia mai stato effettivamente consumato.»



Caro...   

non ho nulla da nascondere perché queste cose le ho già raccontate io stesso, e non me ne vergogno affatto. Tu, per capirle, devi mentalmente collocarle nel loro contesto temporale. Io, nel ‘35, ero uno dei tanti (quasi tutti) giovani italiani i quali pensavano che il fascismo fosse una scorciatoia, sia pure di emergenza, per risolvere i problemi nazionali, fra cui quello di una sovrappopolazione, che non trovava più sfogo nemmeno nell’emigrazione, contingentata dagli altri Paesi. Pensavamo che la sottosviluppata e semideserta Abissinia offrisse spazio al nostro lavoro e spirito d’impresa, e nello stesso tempo ci elevasse al rango delle grandi Potenze che si basavano per gran parte proprio sui loro imperi coloniali.
A quei tempi si pensava così, non soltanto in Italia. E si pensava male. Noi soffrivamo di una sovrappopolazione non per mancanza di spazio, ma perché la nostra agricoltura e industria, entrambe arretrate, non ci consentivano di assorbirla, e perché la politica demografica del fascismo, coi suoi premi alle famiglie numerose, e la sua ottocentesca filosofia («Il numero è potenza»), aggravava il problema. Ma questo, a venticinque anni e nel «clima» dei nazionalismi esasperati di allora, era difficile capirlo.
Ecco perché andai con entusiasmo in Abissinia, deciso a restarci ed a contribuire alla creazione di un’altra Italia, un’Italia di pionieri, in cui il mio sogno era di diventare il piccolo Kipling.
Questo sogno durò fin quando durarono le operazioni militari di cui, al comando di una banda irregolare indigena (gli ascari), io fui una microscopica ed ignara pedina. Quando, arrivato ad Addis Abeba, vidi come si mettevano le cose (la corsa alle medaglie e alle promozioni, la riedizione peggiorata del carrierismo fondato sulla retorica guerriera che già mi avevano disgustato in Patria), caddi in piena crisi. L’anno dopo (‘37), per i miei scritti in cui questa crisi si rifletteva, venni espulso dal partito e dall’albo dei giornalisti, e dovetti andare a guadagnarmi il pane all’estero (in Estonia).
Eccoti in sintesi la mia storia, la storia di una illusione e di una delusione, che furono un po’ quelle di quasi tutta la mia generazione. La vicenda coniugale della sposa abissina rientra nell’illusione. Io volevo diventare un abissino, e lo feci adeguandomi ai costumi matrimoniali locali. Cioè comprai (500 talleri) la mia Destà (così si chiamava) dal padre, cui partendo la restituii con un po’ di dote (tutti i miei risparmi) che le consentirono di trovare subito un altro marito nella persona di un mio graduato (bulukbashi) di nome Gheremedin, che al suo primo nato - ma nato due anni dopo il mio rimpatrio - dette il nome mio.
Oggi io ripenso a questo mio passato con nostalgia non delle cose che feci, ma dell’entusiasmo con cui le feci, e comunque senza vergogna. Mi feci complice di un errore, ma lo commisi in buona fede e senza trarne alcun vantaggio. Anche tu, ragazzo mio, commetterai i tuoi bravi errori. Ti auguro di poterci un giorno ripensare come me, senza arrossirne.

Da I. Montanelli – B. Placido, Eppur si muove. Cambiano gli Italiani? Rizzoli, 1995, pp. 126-127.

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