3 maggio 2016

Controversie montanelliane. Seconda parte


Tino Oldani e Serena Gana Cavallo hanno risposto su Italia Oggi (il 30 aprile)  ai miei rilievi pubblicati su Il Fatto quotidiano e sul sito della Fondazione Montanelli Bassi in relazione agli articoli a cui si fa riferimento nel mio precedente intervento sopra riportato. Chi è interessato potrà leggerli nella sezione “archivio” della versione on line di Italia Oggi.

Non posso fare a meno di rispondere a mia volta per alcune precisazioni.

Procederò in ordine cronologico cominciando quindi dal pezzo di Oldani che sembra avere – come dice lui - qualche nervo scoperto, non senza premettere ancora una volta che ciascuno è libero di criticare Montanelli e anche di “demitizzare” il personaggio, a condizione che la critica sia condotta con imparzialità e argomentazioni accettabili.
1)    Sulla figura di Luca Ostèria (il Dottor Ugo), che riuscì a far evadere Montanelli dal carcere di San Vittore, evidentemente non ci siamo capiti. Oldani conferma che si trattava di un abile doppiogiochista e cita alcuni episodi a prova di ciò. Ma è esattamente quello che ho scritto anche io, aggiungendo però che non si vede perché Montanelli non avrebbe dovuto affidarsi a lui per uscire dal carcere. Si trattava certamente di un personaggio ambiguo, ma talmente abile da guadagnarsi anche la fiducia di un uomo al di sopra di ogni sospetto come Ferruccio Parri, esponente di primo piano del Partito d’Azione e capo del primo governo di unità nazionale nell’Italia postbellica (giugno- novembre 1945), che a Ostèria affidò importanti incarichi.
2)    Oldani mi accusa di usare epiteti offensivi (quali?), ma forse non si rende conto che l’offesa più grave l’ha rivolta lui a Montanelli quando lo ha definito “doppiogiochista in accordo con la polizia repubblichina”, assimilandolo così a Ostèria e assegnandogli un ruolo che non è documentato ed è anzi smentito dalle ricerche della stessa Renata Broggini, autrice della più implacabile biografia critica di Indro. Ed è piuttosto triste che l’accusa venga rivolta a chi oggi non è più tra noi per difendersi.
3)    Né Montanelli può difendersi dalla nuova accusa introdotta, sempre da Oldani, quando scrive che il romanzo Il Generale della Rovere, uscito nel 1959, poco dopo il film di Rossellini, è stato copiato “di sana pianta” dalla sceneggiatura di Sergio Amidei. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un giudizio parziale, basato sull’esame di un’unica fonte: la testimonianza dello stesso Amidei. Invece, per formulare un giudizio onesto bisognerebbe valutare altri elementi. Prima di tutto il fatto che Il Generale della Rovere è un’opera multiforme che Indro ha pubblicato in epoche e redazioni diverse. La prima stesura apparve infatti su Il Mercurio del 1945, dunque ben quindici anni prima che Amidei ponesse mano alla sceneggiatura. Seguì nel 1950 il racconto pubblicato sul Borghese (e questo rimase sostanzialmente il testo di riferimento); poi fu la volta del romanzo, uscito appunto nel 1959, e infine la versione teatrale del 1965. Non è il caso qui di perdersi in un esame filologico, basterà dire che un’attenta analisi comparativa ha messo in luce come nel romanzo uscito nel 1959 soltanto il secondo capitolo riprende sostanzialmente dalla sceneggiatura del film (peraltro firmata, oltre che da Amidei, dallo stesso Montanelli e da Diego Fabbri), mentre il primo e il terzo capitolo ricalcano le versioni uscite precedentemente, tutte di genuina ed esclusiva creazione montanelliana. Non si trattò dunque di copia, ma di una rielaborazione di testi scritti precedentemente da Montanelli, in cui confluì solo parzialmente una sceneggiatura cofirmata da Indro stesso. E nel giudicare tutta questa vicenda bisognerebbe anche tener conto della rottura intercorsa tra Amidei e Montanelli dopo l’uscita del film e di tutte le polemiche insorte sulla figura del “Generale”, tanto che Indro intitolò l’ultima versione, quella teatrale, “Il vero Della Rovere”. Perché dare credito soltanto alla testimonianza di Amidei?

Alla fine torniamo al punto iniziale, cioè al fatto che i detrattori di Montanelli spesso utilizzano strumentalmente le informazioni disponibili, selezionandole secondo la loro convenienza, mentre è regola elementare di qualsiasi indagine storiografica non solo usare la necessaria prudenza ma, soprattutto, imparzialità nella scelta e nell’uso delle fonti.

Quanto alla Signora Gana Cavallo, la ringrazio per l’investitura a “Pontefice Massimo del Culto dell’Eccellentissimo Estinto” (ma che fine ironia!) di cui mi onora nel suo articolo del 30 aprile pubblicato ancora una volta su Italia Oggi. Temo però di non meritare tanto titolo, perché sono abituato da troppo tempo ad esaminare laicamente i documenti – perfino quelli che riguardano il laico Montanelli! – e soprattutto a selezionare le fonti non in base alla convenienza, come fa spesso la lobby dei demitizzatori di professione, ma sulla base della loro rilevanza ai fini dell’accertamento della verità (anche quella piccola, provvisoria verità, che si può ottenere da documenti così frammentari e spesso contraddittori come quelli che riguardano la convulsa storia di Montanelli tra l’arresto e il suo “esilio” in Svizzera). Per non tediare i lettori che forse sono già abbastanza annoiati da una polemica scivolata su toni troppo personali, cercherò perciò di rispondere soltanto agli argomenti che mi sembrano avere qualche peso.
Devo prima di tutto contestare alla Gana Cavallo un’errata lettura della lettera di Montanelli al Parini, in cui non si dice affatto che Indro aveva ripreso la tessera del Partito Fascista su pressioni di Borelli, bensì letteralmente quanto segue:
“…Poco dopo fui invitato al Corriere dal suo direttore Borelli. Gli feci presente la mia situazione di non fascista, per la quale egli non poté assumermi come redattore, sostituendo a tale qualifica quella – molto meno vantaggiosa – di collaboratore. Resistei in seguito alle pressioni di Borelli di farmi riprendere la tessera, e redattore diventai su sua personale responsabilità. Sono rimasto non fascista sino al ’40, quando diventai categoricamente antifascista…”. 
Dunque la Signora o non legge o legge soltanto ciò che vuole e le fa comodo. Quanto alla genuinità di questo documento, pubblichiamo qui di seguito copia delle righe sopra citate invitando l’autrice a venire a verificare l’originale manoscritto presso la Fondazione Montanelli Bassi (promettiamo di essere con lei gentilissimi come con gli altri frequentatori). Nell’occasione potrà consultare anche altre missive inviate da Montanelli sia dalla prigione sia dalla Svizzera in cui si leggono le sue preoccupazioni per la sorte di Maggie, rimasta è vero, nel carcere, ma con la promessa che sarebbe stata liberata da lì a poco. 



Sulla cronologia del distacco di Montanelli dal Fascismo, dal documento dell’OVRA citato da Gerbi e Liucci non si deduce che egli sia stato o non sia stato espulso nel 1937 dal Partito Fascista (benché gli autori della documentata biografia dichiarino che la tessera gli fu effettivamente tolta). Quel che conta è però il fatto che certamente egli non fu più iscritto al Partito da quella data ed è quindi probabile che la tessera gli fosse stata effettivamente ritirata dopo la corrispondenza dalla Spagna e in seguito egli non abbia più voluto riprenderla (da qui la “rinuncia” di cui parla nella lettera a Parini; ma anche se non fosse stato così poco cambia). In ogni caso resta il fatto del progressivo abbandono del Fascismo tra il 1937 e il 1940. D’altra parte che interesse avrebbe avuto Montanelli, prigioniero a San Vittore, a presentarsi a un esponente della Repubblica Sociale come “non fascista dal 1938 al 1940” e come “antifascista dal 1940”, se ciò non fosse stato vero? Questa, al di là delle sfumature psicologiche, la sostanza dei fatti.
Quanto al resto, soltanto poche osservazioni. La notizia tratta dal fascicolo militare di Indro, secondo la quale il 21 novembre del 1942 il giornalista fu dal Ministro della Guerra e da quello della Cultura Popolare  beneficiato (se così si può dire) dell’assegnazione all’Aereoporto di Roma dice ben poco sui suoi rapporti col Regime ed è forse da mettere in relazione con l’impegno profuso dal giornalista in quei giorni per superare i non pochi ostacoli burocratici che si frapponevano al suo matrimonio con Maggie in quanto cittadina straniera, matrimonio che in effetti fu celebrato proprio due giorni dopo, il 23 novembre del 1942. Né dice molto di più la lettera inviata dal direttore del Corriere della Sera Borelli (quello che avrebbe voluto convincere Montanelli a riprendere la tessera del Partito Fascista) al Ministro Pavolini, al quale recapitava “… un’altra lettera di Montanelli”, di cui non sappiamo niente, né il contenuto, né il contesto in cui era stata scritta. La Signora Gana Cavallo è ovviamente libera di nutrire tutti i dubbi che vuole, ma da testi così vaghi è assai difficile trarre conclusioni significative. 
Anche sull’ultimo paragrafo della requisitoria si può solo ripetere con lei: “Sarà vero, sarà falso?” poiché ci sono troppi se e troppi ma. Anche qui ciò che conta è che certamente Indro non ha mai fatto il delatore per i tedeschi, come ci ha confermato l’implacabile Broggini.
Infine, quanto al tono e al lessico usati dalla Gana Cavallo, lasciamo ai lettori il giudizio se la sua prosa sprizzi o meno acredine da tutti i pori. Non sarà difficile per ciascuno farsene un’idea rileggendo direttamente i suoi interventi (quelli più recenti su Italia Oggi e altri già comparsi in passato su Storia in Rete). Sempre, naturalmente, con la massima libertà di acredine.

Alberto Malvolti


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