di Gustavo Micheletti
“Per i disinganni
c’è sempre tempo,
ci sono i saccenti,
ci sono le biblioteche.
Per l’amore verso
la poesia del pensiero,
c’è Borges.
Ezequiel de Olaso <<Juagar en serio>>
Ho commesso il peggiore dei peccati
Che un uomo possa commettere. Non sono stato felice […]
J. L. Borges, <<Il rimorso>>.
In un’intervista del 1979 Borges disse di aver usato la filosofia e la metafisica come strumenti letterari e di non ritenersi un pensatore, di non essere capace di produrre pensieri suoi. Secondo Fernando Savater a questo giudizio perentorio bisogna però aggiungere qualcosa, specialmente alla luce del fatto che lo stesso Borges considera la filosofia un ramo particolarmente fecondo della letteratura fantastica. In una delle note di discussione – ricorda lo stesso Savater - Borges scrisse che la sua antologia della letteratura fantastica conteneva una “colpevole omissione degli insospettati e massimi maestri di quel genere: Parmenide, Platone, Giovanni Scoto Eurigena, Alberto Magno, Spinoza, Leibniz, Kant, Francis Bradley. Infatti, che cosa sono i prodigi di Herbert George Wells e di Edgar Allan Poe – un fiore che ci arriva dal futuro, un morto sottoposto all’ipnosi – in confronto all’invenzione di Dio, alla teoria laboriosa di un essere che in qualche modo è tre e che solitamente perdura fuori dal tempo? Borges avrebbe anche potuto citare altre sublimi creature immaginarie, quali il tempo e lo spazio, l’essere, la natura, l’io, l’infinito, il libero arbitrio… Tutta una mitologia astratta, organizzata razionalmente, ma originata in un primo impeto affabulatore che non differisce del tutto da quello che muove i grandi letterati” (F. Savater, Borges, tra. it. Roma-Bari, 2003, p.113).
In linea generale, per Borges può risultare azzardato il credere che una coordinazione di parole possa risultare più somigliante al mondo di tante altre che pur si propongono di descriverlo o di renderne ragione. Ciò dipende probabilmente dal fatto che il nostro mondo, a prescindere dal tessuto particolare di qualsiasi sua rappresentazione, è comunque un mondo sognato. L’indivisa divinità che opera in noi lo ha sognato “resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo”, scorgendo tuttavia nella sua architettura “tenui ed eterni interstizi di assurdità” sufficienti a farci sapere che “è finto” (ivi, p.116).
Il concetto della vita come un lungo sogno, forse senza che ci sia qualcuno a sognarlo, dipende probabilmente dal fatto che ciascuno è nella misura in cui è sognato da qualcun altro. Per Berkeley, non ci sarebbe un mondo se non ci fosse un Dio che lo percepisce o sogna incessantemente e lo stesso Dio di Spinoza, la più integralmente autosufficiente tra le interpretazioni della divinità, ha bisogno dell’uomo e del suo amore intellettuale per potersi riamare completamente, e quindi interamente percepire.
Le interpretazioni che i filosofi hanno fornito del mondo possono dunque essere intese come finzioni fantastiche e metafisiche capaci d’individuare questi “interstizi”, finzioni che, in quanto tentano di rendere ragione di un ipotetico mondo reale, non possono tuttavia fare a meno di escogitare spiegazioni che vadano oltre l’esperienza più immediata e realistica. Anche per questa ragione Borges preferì sempre la forma del racconto al romanzo lungo: perché riteneva questo genere letterario incline a riempire di circostanze le storie narrate e distratto dal vano tentativo di rappresentare la realtà.
Sono molti i filosofi a cui Borges ha attinto in modo ricorrente per costruire il suo tragitto umano e letterario, sebbene ritenga che in fondo tutto sia stato già pensato in India (e in parte in Cina) alcune migliaia di anni fa. Oltre che delle principali religioni orientali e dei grandi scrittori di ogni nazione, nelle sua opera si trovano tracce consistenti di tutti i classici della filosofia occidentale e di molti altri pensatori notevoli e per lo più dimenticati, tanto che può risultare problematico suddividere e organizzare gli ambiti e le correnti che lo hanno maggiormente influenzato. Tuttavia, si possono forse riconoscere due linee principali di risonanza filosofica: quelle riconducibili, con buona approssimazione e buona pace degli specialisti, rispettivamente all’idealismo e al razionalismo da un lato e al realismo e all’empirismo dall’altro. Platone e Aristotele ne sono i due fondatori, molte ne sono le varianti e gli sviluppi. Berkeley, empirista e idealista a un tempo, risulta forse tra tutti quello più difficilmente collocabile in una delle due categorie. Verso queste due grandi correnti delineabili solo in via approssimativa, Borges, sebbene propenda maggiormente per l’idealismo, si professa egualmente debitore; da molti dei loro esponenti egli sembra comunque aver assunto qualche ingrediente fondamentale della sua arte letteraria per dare vita a quella “poesia del pensiero” che, secondo Ezequiel de Olaso, ne costituisce un tratto essenziale.
Voltaire è stato per lui un maestro di chiarezza e di precisione, Kant ha costituito un riferimento importante per cogliere la centralità dell’esperienza morale. Shopenhauer è il filosofo che più di ogni altro si è per lui avvicinato a disvelare il segreto inaccessibile della realtà. Ancor prima, Hume e Berkeley hanno contribuito a disvelargli l’illusorietà dell’io e Leibniz lo ha introdotto all’idea che la realtà sia un’attuazione inarrestabile di possibilità e di combinazioni.
Quando morì, vicino al suo letto aveva il Livre de Poche di Voltaire e i Frammenti di Novalis. Ancora Savater osserva che furono presenti anche in quel momento i due poli fra i quali oscillò tutta la sua vita: l’ironia e l’immaginazione, la luce e la penombra. Riguardo alla prima giustapposizione, potremmo integrare il commento del filosofo spagnolo osservando che l’ironia di Borges, come il suo umorismo, furono per lo più involontari. In un’intervista a Osvaldo Ferrari (Altre conversazioni) disse di non ricordarsi niente di divertente che avesse potuto dire o scrivere e che il considerare come umoristiche certe sue affermazioni da parte dei suoi critici era spesso un modo per liquidarne la serietà. Da Voltaire egli trasse piuttosto il gusto per la chiarezza e perentorietà di ogni frase, anche di quelle più inclini al dubbio, come da molti altri autori da lui amati. Riguardo all’immaginazione, questa non fu mai un fine in se stessa, ma una necessità per dare voce ad altri elementi salienti della sua poetica, quali una spiccata sensibilità per i paradossi filosofici, mediata dalla vocazione alla massima sobrietà intellettuale e stilistica, la propensione a riconoscere le ragioni dell’ombra, il gusto per l’allusione metafisica e una mitezza, mai attribuitasi o resa troppo esplicita, d’ispirazione orientale, che lo indusse a diluire la propria esistenza in una serie di variazioni e riflessi esenti dalla prevalenza di rigido centro individuale. L’unico peccato di cui la sua vita pare imputabile è quello di non essersi ritenuto e sentito pienamente felice. Forse, questa mancanza di felicità che si attribuisce in un verso (nella poesia Il Rimorso), deriva dal non aver dato attuazione, se non in forma letteraria, all’altra tigre che pur lo abitava. Ma si tratta forse dell’unico peccato che un essere umano può commettere, in quanto tutti gli altri ne costituiscono corollari e derivazioni.
Nelle due conferenze che si terranno il 22 Maggio presso la “Fondazione Montanelli”, il Prof. Bonifazio Mattei (Docente di lingua e letteratura italiana presso il Liceo classico “Giulio Cesare” di Roma) si soffermerà su alcuni aspetti dell’opera poetica di Borges, mentre il Prof. Sergio Alfredo Sciglitano (Docente di storia e filosofia della scienza presso facoltà di Magistero di Neuquen, in Argentina) ci parlerà di alcune tematiche filosofiche presenti nell’opera dello scrittore e poeta argentino.
Riportiamo qui di seguito due estratti dai loro interventi:
di Bonifazio Mattei
Le voci della poesia del Novecento sembrano spesso caratterizzate da un senso di marginalità della vita e del pensiero. Sembrano in altri termini costituire una ‘differenza’, intesa sia nel senso di alterità e di non somiglianza, sia come risultato e qualità costante di una sottrazione dell’io da un ordine totale, influente ed implicito. La poesia di Borges, per converso, è poesia della centralità, poesia senza tempo e di tutta la storia. E in quanto tale, essa tiene in serbo un sentimento profondo delle periferie dello spazio e del tempo, delle distanze remote della civiltà, delle vaghezza della memoria, del sogno, della realtà presente. In essa sembra possibile percepire una fatale coincidenza tra la condizione dell’esistenza e il suo fine, tra le esili orme che la vita lascia nel tempo e il volume del suo destino, tra il non senso e la sua necessità. Borges, senza agire controcorrente, senza mai opporsi apertamente alle mode dominanti, sembra sostenere quell’arduo compito al quale la poesia moderna ha da tempo abdicato: guardare all’ordine, alla complessità del reale, pensare l’assoluto. Ma come accade tutto questo? Come la sua poesia, che è poesia di uomo del Novecento, riesce a caricarsi della gravità dell’epica, della problematicità allegorica di un’opera secentesca o medievale?
Come Borges può farlo senza ricorrere alle eteronimie di Pessoa, senza fare appello aisimboli rinunciatari di Montale? Solo facendo della poesia un ultimo luogo, aperto e disarmato, una linea di confine, tracciata dal verso, che coincide con l’intero suo orizzonte.
La poesia di Borges riduce alla sua essenzialità di linguaggio la semplicità metafisica dell’esistenza. Essa è un luogo in cui diventa gioco e finge per sempre, nel verso, nel sogno, nel pensiero, ogni cosa che sembri vera. A questo tipo di trasfigurazione tende infatti la poesia di Borges, a questa lieve meta di finzione, per cui ogni cosa si fa eterna figura al prezzo di annullarsi per sempre. Nello spettro della poesia, nelle sue cabale, nel suo gioco, tutto il mondo si cancella e perdura, ad un tempo.
Riconosciamo così che tutta la nostra vita è un centro che non ha lati, spigoli, deviazioni. Tutto accade per sempre nel suo vuoto sostanziale, già scritto e futuro.
di Sergio Alfredo Sciglitano
In questa breve relazione cercheremo di tracciare un breve percorso di alcune evocazioni filosofiche borgesiane.
La scelta del termine “evocare” non è casuale: il corrispondente termine spagnolo è transitivo, e significa “chiamare gli spiriti e i morti, supponendoli capaci di presentarsi nel momento degli incantesimi e delle invocazioni”. In questo senso, potremmo collocare l’evocazione borgesiana accanto a quella dei filosofi che lo hanno preceduto, dato che solo raramente Borges si è riferito ai filosofi contemporanei. Ma il termine “evocazione” indica anche “portare qualcosa alla memoria o all’immaginazione”, ciò che Borges ha fatto con le teorie filosofiche cui ha attinto nel corso della sua formazione culturale e che si sono poi rivelate una grande risorsa per la sua sperimentazione letteraria.
Servirebbe uno studio molto più approfondito di questo per tentare di chiarire le tematiche di alcune teorie filosofiche che stanno alla base dell’opera di Borges: la seguente presentazione vuol essere soltanto una semplice descrizione di quelle principali o maggiormente ricorrenti, nella speranza che possa rivelarsi utile ai lettori per addentrarsi nella suggestiva e feconda relazione che intercorre tra Borges e la filosofia.
Per dirla con le parole di Juan Nuño:“La filosofia in Borges é una specie di cosmogonia”, dove mito, dottrina, poema, narrazione forniscono un’interpretazione dell´origine e della formazione dell’universo.
Secondo Gutierrez Girardot, “non sarebbe difficile, per esempio, stabilire paralleli tra Borges e Hume, Berkeley e Nietzsche (…), ma tali paralleli esigerebbero una semplificazione, come dire, una falsificazione dei filosofi citati e sarebbe come negare a Borges la sua originalità, che è l’originalità stessa di tutta la creazione letteraria”. Premettendo questa opportuna considerazione, ci immergeremo nelle relazioni tra la letteratura borgesiana e la filosofia.
Borges ha delineato la sostanza di una potenziale autobiografia, relazionata alla tematica filosofica del tempo:
“Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il Fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo disgraziatamente è reale; io, disgraziatamente sono Borges” .
Le evocazioni borgesiane delle più varie filosofie furono realizzate con gran libertà, senza allacciarsi alla filosofia occidentale (che certamente conobbe, come si può vedere nella sua opera).
Negli ambienti intellettuali che Borges frequentò a Buenos Aires, la Philosopia perennis non si radicò, anche se è certo – come osserva Caturelli - che questa visione della filosofia aveva i suoi esponenti, non solo a Buenos Aires, ma anche in altre città argentine…