17 luglio 2024

Indro Montanelli. Quasi un bibliofilo


 
Montanelli era o non era un collezionista di libri? Che rapporto aveva con la propria biblioteca, chi erano i suoi autori prediletti? E' appena uscito sulla rivista Charta (n.186, aprile/maggio 2024) l'articolo di Federica Depaolis che ci aiuterà a scoprirlo!

Ammette a più riprese di non archiviare i propri articoli né di conservare copia di tutti i libri che ha scritto, passa da una dimora all’altra, da una redazione all’altra “come un gattaccio randagio”, non si ferma, non accumula, non pianifica, non organizza la propria collezione bibliografica che vista nel suo insieme non è imponente né particolarmente ragguardevole. Eppure lui è il principe del giornalismo italiano e ha attraversato a passo svelto tutto il Novecento, amato e odiato, scomodo e bastian contrario, Indro il trita chilometri, protagonista assoluto del proprio tempo e di una vita elevata all’ennesima potenza, una vita fortunata, fatta di incontri, viaggi, sfide, migliaia di pagine lette e migliaia di pagine scritte. Ha vissuto quasi tutto,“quattro o cinque guerre, Etiopia, Spagna, Finlandia, Norvegia, e poi tutto il resto e non so quante rivoluzioni” nelle vesti di reporter, di nomade, di narratore, ritrattista, direttore di giornale, divulgatore della Storia d’Italia, di confessore e interlocutore dei suoi lettori, immerso mani e piedi nel presente con la trascinante vocazione di uno “spettatore incomprimibile.

 

UN GIORNALISTA “SEMPRE SUL PEZZO”
Soprattutto nell’ultima parte della sua lunghissima vita Montanelli era diventato una specie di gloria nazionale, un mostro sacro o classico vivente a rischio di venerazione che grazie alla propria longevità professionale si apprestava a lasciarsi alle spalle - tra articoli, corsivi e risposte ai lettori - oltre 50 mila pezzi pubblicati senza contare le opere di divulgazione storica. Sfide e successi di una penna facile, che siede per strada con la Lettera 22 sulle ginocchia e scrive senza bisogno di niente, la persona giusta nel posto giusto al momento giusto.

Non ci sono torri d’avorio in cui rifugiarsi o sale foderate di libri da cui farsi ispirare: un giornalista deve stare in mezzo alla gente, dove la vita imperversa e gli scossoni della realtà sono più avvincenti di tante speculazioni condotte in solitudine, nel quieto tepore di una serra libresca. “Tu sei un giornalista di strada”, gli ricordava Cecchi, uno cioè che trae spunti dal vissuto, che tende l’orecchio al presente, che si muove in cerca degli eventi e spesso li anticipa “come se fossero i fatti a inseguirlo”. Tutto questo nomadismo, tutta questa devozione al mestiere - “cosa sarebbe la mia vita senza Il Giornale? Una lunga giornata piena di sbadigli e di malinconie” - sono lontanissimi dal bibliofilo tradizionalmente inteso. Che ha bisogno di stabilità, di spazi fissi, di progettualità, di metodo, di tempo e di costante prossimità ai propri tomi, sorvegliati, accarezzati, contemplati giorno e notte, notte e giorno.

 

BIBLIOFILO FUORI DAI GENERIS
Indro invece dai suoi libri comincia a separarsi ancora in vita, li sparpaglia tra Roma e Milano, li perde, li regala, li dimentica a cuor leggero nei residence e nelle redazioni. Pochi, pochissimi sono quelli di cui ha davvero bisogno: i maestri, gli irrinunciabili, gli spiriti affini - Prezzolini, Longanesi, Ojetti, Machiavelli, Voltaire, Sainte-Beuve - insieme a dizionari e Garzantine le rare volte in cui la memoria lo tradisce e l’impellenza da riscontro - lui, capace di una consultazione “rapidissima e quasi rabdomantica”- diventa insopportabile. Il contenuto batte la forma, la qualità - intesa come totale sintonia con certi autori – prevale sulla quantità, la biblioteca si fa leggera, di pronto uso, in grado di seguirlo ovunque vada. “Le confesso che non so quanti libri possiedo”, rivela a una lettrice, invitandola a non disprezzarlo se si limita a rileggere i circa cento libri su cui si è formato e che gli sono del tutto sufficienti. Non c’è una relazione diretta tra cultura e bibliofilia, il mancato accumulo non corrisponde a vuoti di sapere né ad insensibilità nei confronti del libro e lui ne è la prova vivente. Montanelli è un bibliofilo sui generis, un bibliofilo controcorrente e spesso con-traddittorio: sostanzialmente estraneo al concetto di possesso - “la gente mi crede generoso, in realtà è il diritto esclusivo di proprietà che mi lascia indifferente” - vive male la sua scarsa propensione archivistica e classificatoria, incolpandosi, rammaricandosi per non aver agito di-versamente: “io potrei avere un archivio di cose interessanti che non si potevano scrivere ma che avevano qualche diritto di essere registrate (...) invece per pigrizia, per disordine, per incapacità di un lavoro ordinato ho lasciato perdere. È un mio delitto”. Non riesce ad essere completamente bibliofilo, lo è per metà. E là dove non arriva, si autocondanna. Dichiara ad esempio di non possedere Ambesà, edito da Treves nel 1938, e nel farlo si dà dello “sciocco e dissennato scialacquatore di me stesso”. C’è in lui l’istinto, per quanto sopito, alla raccolta e alla conservazione; c’è il riconoscimento dell’importanza delle strutture nate per questo, di quelle esistenti e di quelle tirate su dal nulla, come la Fondazione che porta il suo nome, che nel 1987 vede la luce a Fucecchio, borgo natale e paese dell’anima con cui da sempre, in un crescendo di ambivalenze, il giornalista avverte di avere una specie di debito da saldare: “Qualcosa farò per mio padre e mia madre, qualcosa a Fucecchio farò [...] quel poco che ho potuto mettere da parte lo lascerò a Fucecchio, insieme a tutte le mie carte, alla mia biblioteca, ai miei quadri”. La Fondazione Montanelli Bassi non viene creata per salvaguardare un fondo librario imponente e nemmeno come tentativo di monumentalizzare se stesso ma come atto d’amore per le proprie radici che sono impossibili da dimenticare. Adoperarsi per lasciare un segno proprio là dove il caso ci ha fatto venire al mondo, difendere patrimoni documentari e culturali dalla falce del tempo e dell’incuria.

 

IRREQUIETO CORSARO DELLA CULTURA
Lo stesso, a detta di Indro, doveva fare il Comune di Bagnacavallo per mantenere viva la lezione longanesiana “una piccola Fondazione che accolga e raccolga quanto di Longanesi è possibile adunare: i suoi scritti, le collezioni dei suoi giornali, i dipinti, i disegni, tutta la rivoluzionaria parte grafica e anche pubblicitaria”, lo stesso doveva fare il governo italiano con l’archivio Prezzolini “vasto e prezioso repertorio di documenti decisivi e fervidi” acquisito invece dal Canton Ticino. Indro si schiera risolutamente dalla parte del libro, conoscendo e rispettando nel profondo tutto l’universo che gli ruota intorno: “chi traffica con i libri, li fa o li acquista compie un’azione peritura. Maanche nobilmente coraggiosa [...] tutti, ma proprio tutti apparteniamo a un mondo a parte che sfugge alle categorie dell’utile [...] apparteniamo all’enclave degli ultimi avventurieri dello spirito, con l’arrogante eleganza del disinteresse”. L’irrequieto corsaro della cultura che si accontenta di un centinaio di libri frequenta però bancarelle, librerie antiquarie e spesso si innamora delle biblioteche degli altri, prime tra tutte quelle di Prezzolini, Ansaldo e Henry Furst che, ricorda Montanelli “aveva testi rarissimi, la splendida edizione dell’Omnia goethiana del 1808 che m’ingolosì al pari di tutte le prime edizioni di Henry James e Joseph Conrad” anche se - sottolinea -“la mia vera libreria ideale è soprattutto quella che aveva in testa e pubblicò il mio caro Leo”.

 

ANTICHI E RECENTI MAESTRI
Le chicche bibliografiche, accuratamente selezionate e in linea ai propri gusti personali non lo lasciano affatto indifferente ma la sua bibliofilia non è onnivora né indifferenziata. Può esercitarsi sugli écrivains de chevet, sui prediletti, materia- lizzandosi ad esempio nei 54 volumi in marocchino rosso delle Oeuvres completes di Voltaire pubblicate a Parigi tra 1829 e 1830, nella Storia della città di Roma di Gregorovius in prima traduzione italiana (1872-1876) o nel Sainte-Beuve dei Pre- mieres Lundis (1886) e Nouveaux Lundis (1891) “nell’eccellente edizione in mezza pella coeva presso Calmann-Lévy”, oggi tutti presenti sugli scaffali della sua Fondazione. E ancora, i cari, vecchi maestri: le Opere complete di Machiavelli “una delle menti più lucide non dell’Italia, ma dell’Europa del suo tempo” in un’edizione del 1843 connotata da ex libris e legatura di pregio, Lo spirito delle leggi del signore di Montesquieu (1773), le bellissime riviste di Longanesi - L’Italiano, Omnibus, Il Borghese - e molti tomi in tiratura limitata della longanesiana “I Cento libri”, raffinatissimi in carta India, con rilegatura in piena pelle e cofanetto, volumi ad alta intensità affettiva, che il possessore ha salvato e conservato e che ancora oggi trattengono il peso e il valore di un sodalizio, di un’intensa relazioneamicale. Lo stesso può dirsi del frammento di Diario di Ugo Ojetti, inedito e manoscritto su un quaderno rilegato in pelle e della versione dattiloscritta di Un amore di Dino Buzzati definito “il più magico degli scrittori italiani”.

 

UN VIAGGIO EMOZIONANTE TRA I SUOI GIOIELLI LIBRARI
Indro possiede chicche e pezzi unici, prime edizioni, opere ricercate e inusuali, tomi sette e ottocenteschi, tirature limitate: spuntano tra gli altri Pensieri e battaglie di Camillo Berneri (1938) che contiene al suo interno, cuciti in maniera artigianale, fogli manoscritti di taccuino, la prima edizione del Dizionario geografico fisico storico della Toscana (1833-1846), il Dizionario delle favole di A. L. Millin (1867). E ancora, l’avo Giuseppe Montanelli con la prima edizione di L’impero, il papato e la democrazia in Italia (1859), gli Scritti di Gasparo Gozzi selezionati da Tommaseo (1849), L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi (1849), le Fables de La Fontaine (1875) più un manipolo di esemplari francesi assai particolari come le Scenes de la vie privee et publique des animaux illustrato da Grandville (1842-1844) o Du neuf et du vieux contes et mélanges (1873) di Frere Jean. La collezione giunta fino a noi restituisce alcuni assaggi di una passione non esclusiva e nemmeno maniacale ma esistente, di certo capace di crescere e farsi spazio se solo l’originatore della raccolta lo avesse permesso. Ma Montanelli ha agito a modo suo, ha arginato il “furo-re d’aver libri”, si è mantenuto “stordito e sostanzialmente estraneo” rispetto alla serie completa, alla parata estetica, alle metrature di rarità pur affinando il gusto per i volumi di pregio e facendo volentieri ricorso alla bottega del rilegatore come gesto di cura e di affezione ai propri libri. Se con distratta approssimazione si lamenta con i lettori di non aver più Ambesà o La lezione polacca ecco che la sua biblioteca fucecchiese invece ce li riconsegna, perfettamente preservati, con rilegatura, firma di possesso ed ex libris. Salvo pochissime eccezioni le prime edizioni delle opere proprie ci sono tutte - buono l’assortimento per le ristampe successive e il campionario dei titoli tradotti nelle diverse lingue - alcune con rilegatura in mezza pelle, fregio floreale sul dorso e scritte dorate, altre invece integre nel loro corredo editoriale originario che comprende ad esempio le belle sovraccoperte longanesiane della collana “Il Cammeo” - Vita sbagliata di un fuoriscito, Tali e quali e Busti al Pincio - o quella a firma Colette Rosselli realizzata per Tagli su misura. Lo stesso Indro sa che quella di Fucecchio è una biblioteca residuale “sfoltita per eccesso di abbandoni e per la mia distratta generosità nel donare”, crivellata da colpi e amputazioni, in grado di ospitare solo una piccola parte di tutto ciò che è stato letto e studiato: assenze superiori alle presenze, un mix di strumenti, ferri del mestiere, doni, amicizie, grandi amori e fascinazioni bibliofile che non sono diventate ossessioni ma che ci sono state.

 

IL BIBLIOFILO MONTANELLI: UN CINICO SENTIMENTALE
Il ventenne che mal sopporta le scaffalature di libri “li compro, li succhio sciupandoli di quel che posso succhiare poi li metto via, che soltanto il vederli mi dà uggia” è lo stesso uomo di cultura e successo orgoglioso di possedere prime edizioni delle opere di Giuseppe Giusti e Massimo d’Azeglio, che si incanta alle mostre bibliografiche degli antiquari, che crea e sovvenziona una Fondazione nella piena consapevolezza che in Italia“quando uno muore, muore per sempre” e che tutto in realtà è provvisorio, anche gli stessi libri, anche quelli amatissimi.

  
           


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