Marco Travaglio difende Indro Montanelli: "Non era un pedofilo. Amava quella ragazzina, voleva diventare abissino e si adeguò a una tradizione"
"L’età da marito varia a seconda dei secoli, dei meridiani e dei luoghi", dice il direttore del Fatto Quotidiano, allievo del grande giornalista accusato di razzismo e colonialismo. "Andò in Etiopia attratto più da Kipling che da Mussolini. Il suo monumento? Sarebbe stato il primo a buttarlo giù"
di Luciano Scalettari
«La storia me l’ ha raccontata subito. Una delle prime volte in cui sono andato nel suo ufficio ho visto che aveva sulla sua scrivania tre foto, tra cui il ritratto di Destà, la ragazza eritrea. “Chi è questa africana?”, chiesi. “È la mia prima moglie”, rispose. “Siamo stati sposati due anni durante la guerra d’ Abissinia. Le sono molto affezionato. Aveva 14 anni… all’ epoca si faceva così”. Lo era, molto affezionato. Quando parlava di lei si commuoveva. Ha avuto tre mogli, ma non parlava di Destà in modo diverso dalle altre».
Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano e noto volto televisivo, accetta volentieri di raccontare il “suo Montanelli”. Quello che ha frequentato come direttore delle testate dove ha lavorato per otto anni. Ma non solo. Il rapporto di Travaglio con Montanelli era qualcosa di più: lo stesso Indro lo definì uno dei suoi “puledri di razza”. All’ epoca Travaglio era un giovane cronista. Veniva dalla collaborazione al Nostro Tempo di Torino e aveva cominciato a collaborare col Giornale di Indro Montanelli. «Fu lui che mi assunse», dice, «nel 1992. E mi riassunse quando due anni dopo mi trasferii con lui alla Voce, il quotidiano che aveva fondato dopo aver lasciato con scalpore il Giornale. La Voce chiuse un anno dopo. Ma non ho mai smesso di frequentarlo, fino alla sua morte».
- Destà oggi è “pietra dello scandalo”, per cui si chiede la rimozione della statua di Montanelli dai giardini di Milano a lui intitolati.
«Già. Mi raccontò poi che aveva chiesto di tornare lì, negli anni ’ 50. Quando Montanelli era rientrato in Italia, alla fine della campagna militare, Destà aveva deciso di non venire in Italia con lui. E lei stessa, poco dopo, gli aveva chiesto il permesso di sposare un suo sottoufficiale eritreo. Montanelli, nella guerra d’ Abissinia, comandava il 20° battaglione eritreo. Erano truppe ascare, tutti soldati locali tranne lui, comandante, unico italiano. Montanelli, insomma, benedì in un certo senso anche le seconde nozze di Destà».
-L’ accusano di razzismo e di maschilismo, per aver sposato una ragazzina di 14 o forse 12 anni.
«È un’ accusa che mi fa sorridere. Lui voleva diventare abissino. Era andato in Africa un po’ nel mito del Duce, ma soprattutto nel mito di Kipling, di cui era un grande lettore. Gli piaceva l’ avventura. Era partito per l’ Africa come il classico europeo affascinato dall’ avventura esotica, dalle popolazioni indigene. Si era immerso nelle tradizioni e nella cultura del luogo. I commilitoni africani gli dissero: “Tu sei single, ti devi sposare”. E lui, a differenza di altri soldati che semplicemente andavano a prostitute, preferì prendere moglie. Allora c’ era anche il cosiddetto “madamato”, questa sorta di sposalizio provvisorio, nato più che altro per evitare la prostituzione e le malattie. Una via di mezzo fra il matrimonio nostro e quello loro. Era del tutto normale, allora, sposarsi a partire dai 12 anni, per le ragazze abissine, come lui stesso ha spiegato diverse volte. È per questo che mi fa sorridere l’ accusa di razzismo».
-Anche oggi, purtroppo, in molti Paesi africani c’ è la piaga del matrimonio precoce, anche a 12 anni.
«Certo, ma non lo sa nessuno. Non credo che Montanelli fosse un santo, semplicemente gli eritrei gli hanno spiegato che da loro il matrimonio funzionava così, dai 12 anni le donne si sposavano, a 20 anni erano vecchie, a 30 morivano. Quella era la tradizione. Non era vissuta come una violenza, né dall’ uomo né dalla donna. E non c’ era il corteggiamento o il fidanzamento: il matrimonio era combinato quasi sempre dalle rispettive famiglie. Si faceva così e lui ha fatto così. Non ha mai avvertito la cosa come razzismo. Che era ben altra cosa, come ha spiegato lo storico Angelo Del Boca sul Fatto, ossia vietare le unioni miste, il matrimonio con i non italiani».
-Come in effetti accade nel 1937…
«Infatti. Ad anticipazione delle leggi razziali del 1938, Mussolini cominciò a censurare Faccetta nera e tutte le canzoni che inneggiavano alle unioni miste. Nel ’ 37 ci fu la svolta, si decise che bisognava bloccare le unioni miste e il miscuglio del sangue, e Faccetta nera diventa una canzone proibita. Prima, era una canzone che, a suo modo, indicava l’ integrazione. Era il contrario del razzismo. Il razzismo lo sposa Mussolini dopo il 1937 e l’ anno successivo promulga le leggi razziali. Nel 1937 diventa reato anche il madamato e si proibisce il matrimonio misto anche per chi si fermava a vivere nelle colonie».
-In questi giorni Montanelli viene apostrofato come stupratore.
«È un’ accusa, come quella di pedofilia che vale per gli italiani e le italiane di oggi, non per allora. Secondo me è razzismo, invece, imporre i nostri modelli di vita e di sviluppo cancellando le tradizioni locali, salvo che naturalmente non siano barbare e disumane. Ma l’ età da marito varia a seconda dei secoli, dei meridiani e dei luoghi».
-Che giudizio dava di se stesso, rispetto a quella scelta?
«Diceva che non c’ era niente di che vantarsi, ma nemmeno di che vergognarsi. Lui ha sempre considerato Destà come la sua prima moglie. Non stiamo parlando di uno che ha comprato una schiava per farne un oggetto sessuale. Quando è andata a trovarla, nel 1952, ha scoperto che aveva avuto tre figli dal suo secondo marito e che il primogenito, nato dopo 20 mesi da quando lui era tornato in Italia – quindi non era suo figlio, come si è vociferato – lo aveva chiamato Indro. Raccontava commosso quell’ incontro. Abbiamo pubblicato sul Fatto una lettera che Montanelli spedì ai giovani che gli avevano scritto dopo che lui aveva raccontato per la prima volta questa vicenda in televisione: “Io ripenso a questo mio passato”, scriveva, “con nostalgia non delle cose che feci ma dell’ entusiasmo con cui le feci. E comunque senza vergogna. Mi feci complice di un errore, ma lo commisi in buona fede e senza trarne alcun vantaggio”. Ovviamente, rivedeva quell’ episodio col senno di poi e da occidentale. Ammetteva che a 26 anni adeguarsi a una tradizione del genere lo considerava uno sbaglio, anche se va detto che non fu certo l’ unico ad aver sposato un’ africana di quell’ età, lo facevano innanzitutto gli africani, allora e anche molto dopo. Purtroppo, abbiamo la tendenza, alimentata anche dai social, di azzerare la profondità della storia e di rendere tutto un immediato qui e ora».
-Montanelli, però, viene oggi accusato anche del modo in cui parlò dell’ episodio e di Destà. La definì “animaletto”.
«Sì, quello era il suo modo di parlare. Letizia Moizzi, sua nipote, già giornalista al Giornale e oggi curatrice col professor Malvolti della fondazione Montanelli a Fucecchio, mi diceva qualche giorno fa che pure a lei diceva “animaletto”. Non era un modo spregiativo di parlare di un’ africana. La chiamava così in maniera affettuosa. Non lo capisce chi non lo ha conosciuto. Montanelli mi chiamava “mammozzo”, e non ho mai capito esattamente cosa volesse dire, forse ragazzino, ragazzo di bottega, apprendista. Dava spesso dei soprannomi».
-In questi giorni è apparso a Milano un murales dedicato a Destà.
«Bello. Credo che lui sarebbe stato molto favorevole, perché le voleva bene. Ancora dopo tanti anni.
-Quella statua andrebbe tolta?
«Sì. Ma per ragioni estetiche. Da lontano sembra un trombone. E Montanelli detestava i “tromboni”… poi sai, se avesse potuto scegliere… È uno che non ha voluto funerali, che non sopportava le cariche, la retorica, i pennacchi, le cerimonie, i discorsi pomposi, le commemorazioni, figurati quanto gli avrebbe fatto piacere una statua del colore di un trombone. Alla fin fine era una persona schiva. Secondo me, bastava e avanzava dedicargli i giardini. Quelli sì, gli sono dovuti, per la sua grandezza di giornalista e perché in quel luogo nel 1977 le Brigate Rosse gli hanno sparato, a pochi metri da dove si trova oggi la statua. Come omaggio della città di Milano era sufficiente. È chiaro che togliere la statua adesso fa ridere. Quando dedichi un monumento a un personaggio storico, non è perché è stato fatto santo, ma perché gli riconosci una grandezza in qualche ramo delle scienze o delle arti. Buttiamo giù la statua di Voltaire perché investiva i suoi risparmi nelle navi negriere e perché aveva scritto cose terrificanti contro gli ebrei o i neri? Buttiamo giù il Colosseo, visto quello che succedeva dentro? Condanniamo Cristoforo Colombo perché era un colonialista? Ma quando mai poteva avere in mente di essere un colonialista? Non esisteva neanche l’ espressione. L’ abbiamo inventata noi. È un modo abbastanza ridicolo pensare di risolvere i problemi giudicando le vicende della storia col senno di poi e con la nostra cultura. Secondo me non c’ è peggior razzismo di chi pensa che gli africani debbano vivere oggi secondo il nostro modello di vita. Anzi, che addirittura avrebbero dovuto vivere all’ epoca secondo il nostro modello di vita di adesso. Fermo restando che io, oggi, non sposerei mai una ragazza di 13 o 14 anni né mi imbarcherei volontario per una missione militare in Africa, che ne so di cosa avrei fatto a 25 anni nel 1935, essendo nato dentro il fascismo e cresciuto imbevuto della cultura di allora. Mettiamoci nei panni di un signore nato nel 1909… È come pensare che nostro nonno o bisnonno abbia avuto sempre dei pensieri “politicamente corretti” per la nostra cultura odierna. No, non è così. Non è possibile».
- Molti italiani sono rimasti a vivere in Abissinia, con le mogli locali.
«E tanti se le sono portate in Italia».
- E quante sono state abbandonate. È vero, come dice qualcuno, che queste polemiche sono anche conseguenza del fatto che non abbiamo mai fatto i conti con la nostra colonizzazione?
«Credo di sì. Angelo Del Boca fece una lunga ricerca, ad esempio, dalla quale emerse che l’ Italia aveva utilizzato armi chimiche e gas venefici nella guerra d’ Abissinia. Montanelli polemizzò a lungo con lui: per la sua esperienza diretta, diceva, non li aveva mai visti usare e negava che fosse mai accaduto. Del Boca, a un certo punto, tirò fuori i documenti e le prove, e Montanelli riconobbe che aveva torto e chiese scusa. Era una persona estremamente onesta. Non è che dovesse difendere chissà che. Inoltre, consideriamo che era visceralmente un provocatore: quando tutti erano antifascisti a lui veniva voglia di nascondere che era stato antifascista».
- Anche questo è un tema controverso.
«Lui, fascista, lo era stato. Ma aveva smesso di esserlo non il 25 luglio 1943 quando arrestarono il Duce o il 25 aprile del ‘45 quando lo ammazzarono. Smette di esserlo quando il fascismo è all’ apice, quando torna dall’ Africa e vede la retorica dell’ Impero, quando va a raccontare come corrispondente la guerra di Spagna e fa la cronaca della battaglia di Santander. Mentre in Italia quell’ episodio veniva celebrato come epico, lui la racconta come una lunga passeggiata con un solo nemico: il caldo. E per aver smontato la retorica di quella “impresa militare” – che veniva presentato come un fiore all’ occhiello delle nostre truppe di complemento a fianco di quelle Francisco Franco – viene espulso dal partito e dall’ albo dei giornalisti, e costretto a espatriare in Estonia, a Tallin, dove va a fare il lettore di italiano all’ università. Forse non molti lo sanno, ma nel 1943 viene ricercato dalle SS e nel 1944 viene arrestato, portato al carcere di Gallarate, interrogato dai nazisti: “Sono in guerra con voi”, risponde, “sono vostro nemico, non sono più fascista”. E lo condannano a morte. Riuscì a scappare poco prima della fucilazione. Lui questa cosa l’ ha raccontata molto poco, perché detestava i reduci e quelli che facevano il “reducismo”. Rispetto a tanti che sono stati fascisti fino alla sua caduta, lui ha smesso molto prima. Ma da provocatore qual era non ha mai fatto parte di quelli che lo sbandieravano. Montanelli ha sempre glissato su una vicenda, che peraltro gli avrebbe fatto onore e anche molto comodo. Invece, ancora oggi si sente dire che comunque era sempre rimasto un po’ fascista. Perché? Semplicemente perché non era di sinistra, era un conservatore, ma non fascista».
-Eppure, sarebbe stato per lui un titolo di merito, no?
«Era fatto così. Quando tutti erano antifascisti gli era passata la voglia di dire “anch’ io lo sono”, perché era bastian contrario, non voleva fare il reduce, perché non ha voluto fare il senatore a vita, perché ha rifiutato la direzione della Stampa e due volte quella del Corriere della Sera. Perciò dico che oggi è difficile capirlo se non l’ hai conosciuto, perché la rappresentazione che dava di sé era molto diversa da com’ era. In quei filmati televisivi sembrava un signore maschilista, sprezzante, altezzoso, arrogante, pieno di sé e burbero. In realtà era un pezzo di pane, tutta un’ altra cosa. Gli piaceva fare il finto burbero. Faceva parte del personaggio».
-Quanto ti porti dentro di Montanelli nel tuo fare il giornalista?
«Purtroppo niente. Basta avere il senso delle proporzioni, il senso del limite, basta aprire un suo libro e leggere a caso qualcosa… alzi le mani e ti arrendi. Quando leggi qualsiasi cosa scritta da lui, anche a 25 anni, anche la sua cronaca del “20° battaglione eritreo” che lo fece notare a Ojetti e assumere al Corriere, ti rendi conto che è un’ altra categoria, un altro pianeta. Non ho mai visto nessuno scrivere così. Se ti riferisci al modo di essere giornalista di Montanelli, allora posso dire di aver sempre cercato, come lui, di non avere padroni e di non cercarne. E soprattutto di scrivere chiaro, pensando solo ed esclusivamente ai lettori. Su questo Montanelli insisteva sempre. Credo di non aver mai subito una riga di censura per un mio pezzo, ma ogni tanto qualche telefonata mi arrivava: “Questo pezzo dà troppe cose per scontato”, mi diceva. “Nulla per i lettori è scontato, ogni giorno devi riraccontare, anche se stai scrivendo di un processo che segui tutti i giorni da mesi”. Il lettore può arrivare all’ ultimo momento e leggerti per la prima volta. Devi scrivere non per gli imputati, gli avvocati, i magistrati, i colleghi».
-È una delle “lezioni” importanti che hai fatto tue?
«Devi pensare a quello che interessa i lettori, devi essere vivace, farti leggere, non essere prolisso né complicato. Ricordi che i suoi editoriali non “giravano” mai nelle pagine interne. Perché, diceva, giramento di pagina giramento di scatole. Il pezzo doveva finire in prima. Scriveva a macchina, scriveva di getto, faceva qualche correzione a mano, e lo consegnava a misura giusta per stare in prima. E non aveva il computer, teniamolo presente. Scriveva con le sue Olivetti Lettera 22 o 32».
-Tornando alla statua, meglio sostituirla con una bella e grande macchina da scrivere?
«Forse sì, ma non ora, bisognava pensarlo allora, quando si decise di dedicargli il giardino. Adesso, con la bufera delle polemiche, significherebbe che la città di Milano, a cui Montanelli ha dato molto più di quanto ha ricevuto, dà credito alle accuse di fascista, razzista o stupratore».
-La “sua” Milano…
«Sì. L’ aveva eletta come la sua città, dopo che la Toscana l’ aveva “rinnegato”. Il che non significa che non abbia sempre criticato aspramente molti aspetti del capoluogo lombardo, non abbia mancato di dire che la borghesia milanese gli faceva schifo. Ricordiamo che negli anni ‘70 Montanelli era trattato come un appestato. La Stampa e il Corriere riuscirono a fare l’ apertura sul suo attentato senza mettere il nome nel titolo».
- Insomma, causa le polemiche quella statua diventa intoccabile…
«Oggi toglierla non si può, sarebbe un pessimo segnale, ma allora, se avessero deciso di mettere una bella e gigantesca macchina da scrivere sarebbe stata una bella cosa. Oppure semplicemente dare il suo nome a quei giardini per ricordare che gli hanno sparato per quello che scriveva, che era uno che faceva il mestiere in modo piuttosto pericoloso, e che era disposto a pagarne le conseguenze. Vedi, in 92 anni ha cambiato idea su un sacco di cose, Montanelli, ma il segreto è cambiare idea quando non ti conviene, in Italia spesso si fa il contrario. Lui l’ ha sempre fatto quando non gli conveniva. Diventa antifascista quando il fascismo è all’ apice, poi negli anni ’ 50, quando sono tutti democristiani, lui fa la campagna contro Gronchi presidente della Repubblica, e quando monta il vento pro centrosinistra lui si dichiara contro, e negli anni ’ 70, mentre tutti sono a sinistra, lui fa il giornale di centro destra, e gli sparano. E ancora, negli anni ’ 80, tutti diventano craxiani e lui spara a zero contro Craxi, che peraltro era il compare del suo editore Berlusconi. Negli anni ‘90 quando tutti si trasformano in berlusconiani lui molla Berlusconi e va a fondare un piccolo quotidiano. Ha sempre fatto questo mestiere, giuste o sbagliate le idee che portava avanti, con coerenza e onestà, sempre pagandone le conseguenze. E non ha mai cambiato posizione per convenienza. Quindi quella titolazione dei giardini è perfetta perché ricorda l’ episodio di un giornalista a cui hanno sparato perché era coraggioso e andava contro il conformismo del momento. Quello è un bell’ omaggio. Che manterrei, perché gli somiglia, lo ricorda proprio per la caratteristica che gli è più propria».
Fonte: Famiglia Cristiana, 17 giugno 2020
Indro Montanelli con la divisa da ufficiale in Etiopia